La mortificazione esterna

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SANT’ALFONSO MARIA DE LIGUORI – LA MORTIFICAZIONE INTERNA

Selva di materie predicabili ed istruttive

PARTE SECONDA

DELLE ISTRUZIONI

ISTRUZ. VIII.

Circa la mortificazione, specialmente interna.

L’uomo da Dio fu creato retto, sicché senza contrasto il senso ubbidisse allo spirito e lo spirito a Dio: Deus fecit hominem rectum3. Venne il peccato e scompose questo bell’ordine; e quindi la vita dell’uomo cominciò ad esser una continua guerra: Caro enim concupiscit adversus spiritum, spiritus autem adversus carnem4. Questi erano i lamenti dell’apostolo:Video autem aliam legem in membris meis repugnantem legi mentis meae et captivantem me in lege peccati5. Quindi nasce esservi due sorte di vita per l’uomo: la vita degli angioli che attendono a far la volontà di Dio, e la vita delle bestie che attendono a soddisfare i sensi. Se l’uomo attende a fare la divina volontà diventa angelo; e se attende a soddisfare i sensi diventa bestia. Onde quel che disse il Signore a Geremia: Constitui te hodie… ut evellas et destruas… aedifices et plantes6, dobbiamo eseguire ancor noi in noi stessi; dobbiamo piantar le virtù, ma prima dobbiamo svellere l’erbe cattive. E perciò bisogna che stiamo sempre colla zappetta della mortificazione alla mano per recidere gli appetiti malvagi che nascono e sempre ripullulano in noi dalle radici infette della concupiscenza; altrimenti l’anima diventerà una boscaglia di vizj. Bisogna in somma mondare il cuore se vogliamo aver luce per conoscere il sommo bene ch’è Dio: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt7. Onde disse poi s. Agostino: Si Deum videre vis, prius cogita de corde mundando8. Dimanda Isaia9: Quem docebit scientiam?… ablactatos a lacte, avulsos ab uberibus. Iddio non dona la scienza de’ santi, ch’è il saper conoscerlo ed amarlo, se non a coloro che sono slattati e staccati dalle poppe del mondo: Animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei10. Chi attende, come bruto, a soddisfarsi de’ piaceri sensuali non è capace neppur d’intendere l’eccellenza de’ beni spirituali.

Dice s. Francesco di Sales che siccome il sale preserva la carne dalla putredine, così la mortificazione preserva l’uomo dal peccato. In quell’anima dove regna la mortificazione regneranno ancora le altre virtù.Myrrha et gutta et casia a vestimentis tuis11. Scrisse su questo passo Guerrico abate: Si myrrha prima spirare coeperit, consequentur et aliae species aromaticae12. E ciò appunto disse la sacra sposa: Messui myrrham meam cum aromatibus meis13. Tutta la nostra santità e salute stanno nel seguire gli esempj di Gesù Cristo: Quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis filii sui14. Ma non potremo mai seguir Gesù Cristo, se non neghiamo noi stessi ed abbracciamo col mortificarci quella croce ch’egli ci dà a portare: Qui vult post me venire,

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abneget semetipsum, et tollat crucem suam et sequatur me1. La vita del nostro Redentore fu tutta piena di patimenti, dolori e disprezzi; onde Isaia lo chiamò: Despectum et novissimum virorum, virum dolorum2. Siccome la madre prende la medicina amara per sanar l’infermo suo bambino che allatta; così il nostro Redentore, dicea s. Caterina da Siena, volle assumere tante pene per guarire noi poveri infermi. Ma se Gesù Cristo tanto patì per nostro amore, è giusto che noi patiamo per amor suo. Bisogna dunque essere quali ci vuole s. Paolo: Semper mortificationem Iesu in corpore nostro circumferentes, ut et vita Iesu manifestetur in corporibus nostris3. Ed allora ciò noi faremo, dice s. Anselmo in detto luogo, quando ad eius imitationem assidue mortificamur. E specialmente dobbiamo ciò eseguire noi sacerdoti, che continuamente celebriamo i misteri della passione del Signore: Quia passionis dominicae mysteria celebramus, debemus imitari quod agimus, dice Ugone da s. Vittore.

I mezzi principali per acquistar la santità sono l’orazione e la mortificazione, figurate dalle sacre scritture nell’incenso e nella mirra. Quae est ista quae ascendit per desertum sicut virgula fumi ex aromatibus myrrhae et thuris4? E soggiunge il testo: et universi pulveris pigmentarii; per significare che l’orazione e la mortificazione vengono poi seguite da tutte le virtù. Son necessarie dunque per render un’anima santa l’orazione e la mortificazione; ma bisogna che preceda la mortificazione all’orazione:Vadam ad montem myrrhae et ad collem thuris5. Così invita il Signore le anime a seguirlo prima al monte della mirra e poi al colle dell’incenso. Dicea s. Francesco Borgia che l’orazione è quella che introduce nel cuore il divino amore; ma la mortificazione è quella poi che all’amore apparecchia il luogo col toglierne la terra, che altrimenti gl’impedirebbe l’entrata. Se uno va alla fonte a prender acqua e vi porta un vaso pieno di terra, altro non ne riporterà che loto; bisogna dunque che prima ne tolga la terra e poi vi prenda l’acqua. L’orazione senza mortificazione, diceva il p. Baldassare Alvarez, o è illusione o poco ella dura. E s. Ignazio di Loiola dicea che più s’unisce con Dio un’anima mortificata in un quarto d’ora d’orazione che in più ore un’altra immortificata. E perciò avendo il santo inteso una volta lodare una persona esser di molta orazione, disse: «È segno dunque che sarà di molta mortificazione».

Noi abbiamo anima e corpo. La mortificazione esterna è necessaria a mortificare gli appetiti disordinati del corpo, l’interna a mortificare gli affetti disordinati dell’anima. Tutto ciò sta compreso in quelle parole del nostro Salvatore: Qui vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me6. La mortificazione esterna ci vien significata colle parole tollat crucem suam; e questa anche è necessaria, come vedremo appresso: ma la principale e più necessaria è l’interna,abneget semetipsum Questa consiste nel sottomettere alla ragione le passioni sregolate, come l’ambizione, l’ira disordinata, la stima propria, l’attacco all’interesse o al proprio giudizio o alla propria volontà: Duo sunt crucis genera,

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dice s. Agostino: unum corporale, aliud spirituale. Alterum est sublimius, scilicet regere motus animi1. La mortificazione esterna dunque resiste agli appetiti della carne, per soggettarla allo spirito: l’interna agli affetti del cuore, per soggettarli alla ragione e a Dio; che perciò è chiamata questa dall’apostolo circumcisio cordis in spiritu2. Le passioni per altro non sono cattive in sé, ma indifferenti; anzi allorché sono ben regolate dalla ragione, sono utili, poiché giovano alla conservazione del proprio essere: ma quando alla ragione si oppongono, son di ruina all’anima. Povera quell’anima ch’è lasciata da Dio in mano de’ suoi desiderj! Questo è il maggior castigo con cui Dio la possa punire: Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum: ibunt in adinventionibus suis3. Bisogna perciò pregar sempre il Signore come pregava Salomone: Animae irreverenti et infrunitae ne tradas me4. Dio mio, non mi abbandonate in mano delle mie passioni.

La nostra principale attenzione dunque dee consistere nel vincere noi stessi: Vince te ipsum. S. Ignazio di Loiola par che non sapesse insinuare agli altri documento più importante di questo: questo era il soggetto usuale de’ suoi sermoni familiari, vincere l’amor proprio, rompere la propria volontà; mentre dicea che di cento persone d’orazione più di novanta riescono di propria testa. Egli stimava più un atto di mortificazione della propria volontà che più ore di orazione abbondante di consolazioni spirituali. Ad un fratello che staccavasi dalla compagnia degli altri, per liberarsi da qualche difetto, disse ch’egli avrebbe più guadagnato con pochi atti di mortificazione in tale occasione che se fosse stato per un anno in silenzio in una grotta: Non est minimum, scrisse Tomaso da Kempis, in minimis se ipsum relinquere. All’incontro scrisse s. Pier Damiani che niente gioverà ad uno l’aver lasciato tutto, se non lascia se stesso: Nihil prodest sine te ipso caetera reliquisse. Onde dice s. Bernardo a chi volesse lasciar tutto per darsi tutto a Dio: Qui relinquere universa disponis, te quoque inter relinquenda numerare memento5. Altrimenti, parla il santo, se non neghi te stesso, non potrai esser mai seguace di Gesù Cristo: Sane, nisi abnegaveris temetipsum, sequi Christum non potes6. Il nostro Redentore exultavit ut gigas ad currendam viam7; non può pertanto, soggiunse lo stesso s. Bernardo, tenersi dietro a Gesù che corre chi vuol seguirlo aggravato dal peso delle sue passioni ed affetti alla terra: Exultavit ut gigas ad currendam viam, nec currentem sequi potest oneratus.

Sopra tutto bisogna attendere a vincer la passione dominante. Taluni attendono a mortificarsi in molte cose, ma poco si sforzano a superar quella passione alla quale sono più inclinati; e questi non possono mai avanzarsi nella via di Dio. Chi si lascia dominare da qualche passione disordinata sta in gran pericolo di perdersi. All’incontro chi vince la passione dominante facilmente vincerà tutte le altre. Superato il nemico più forte, è facile di superare gli altri che han minori forze. Il pregio e merito

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della vittoria ivi sta dove bisogna più valore, per esempio taluno non sarà già avido di danari, ma sarà troppo geloso della stima propria; all’incontro un altro non sarà ambizioso di onori, ma sarà avido di danari: se il primo non attende a mortificarsi quando è vilipeso dagli altri, poco gli gioverà il disprezzo delle ricchezze; e così ancora in quanto al secondo, s’egli non attende a mortificarsi circa la cupidigia de’ danari, poco gli gioverà il disprezzo degli onori. In somma dove la persona si fa più violenza per vincere se stessa, ivi più merita e profitta. Tantum proficies, dice s. Girolamo, quantum tibi vim intuleris. S. Ignazio era di naturale collerico e sdegnoso, ma colla virtù si rendé così mansueto che fu stimato poi di natura placida. Similmente s. Francesco di Sales era molto inclinato all’ira; ma colla violenza che si fece divenne l’esempio della pazienza e della dolcezza, come si legge nella sua vita in tanti incontri d’ingiurie d’infamazioni che gli furono fatte. La mortificazione esterna senza l’interna poco serve. Che serve, dice s. Girolamo, estenuarsi con digiuni e poi esser pieno di superbia? astenersi dal vino e poi ubbriacarsi di odio? Quid prodest tenuari abstinentia, si animus superbia intumescit? quid vinum non bibere, et odio inebriari1? Dice l’apostolo che bisogna spogliarsi dell’uomo antico, cioè attaccato all’amor proprio e vestirsi dell’uomo nuovo, cioè di Gesù Cristo, il quale non mai compiacque se stesso: Etenim Christus non sibi placuit2. Quindi s. Bernardo compativa il cattivo stato di alcuni monaci che vestivano umilmente di fuori, ma conservavano di dentro le loro passioni: Humilis habitus non sanctae nativitatis est meritum, sed priscae vetustatis operculum. Veterem hominem non exuerunt, sed palliant. Questi tali, dicea, non si spogliano de’ vizj, ma li coprono con quei segni esterni di penitenza. E così niente o poco giovano i digiuni, le vigilie, i cilicj, le discipline a chi sta attaccato a se stesso ed alle cose proprie. Chi vuol esser tutto di Dio, dice s. Giovanni Climaco, bisogna che tolga l’attacco specialmente a quattro cose: alle robe, agli onori, a’ parenti e sopra tutto alla propria volontà.

E per prima bisogna togliere l’attacco alle robe e a’ danari. Dice s. Bernardo che le robe aggravano chi le possiede, imbrattano chi le ama ed affliggono chi le perde: Possessa onerant, amata inquinant, amissa cruciant3. Il sacerdote dee ricordarsi che quando pose il primo piede nella Chiesa si protestò di non volere altro bene che Dio, dicendo: Dominus pars haereditatis meae… tu es qui restitues haereditatem meam mihi4. Quel cherico dunque, dice s. Pier Damiani, che prima ha eletto Dio per sua porzione e poi attende a far danari fa una grande ingiuria al suo creatore: Si igitur Deus portio eius est, non levem creatori suo contumeliam videtur inferre qui aestuat pecuniam cumulare. Sì, perché allora dà a vedere che Dio non è un bene che basti a contentarlo. Scrive s. Bernardo, ed è verità, che tra gli avari non vi è avaro più avido d’un ecclesiastico che sta attaccato alle robe: Quis, obsecro, avidius clericis quaerit temporalia5? Quanti sacerdoti, se non fosse per quella misera limosina, non direbbero mai messa! e volesse Dio

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che questi tali non la dicessero mai! Questi, come dice s. Agostino, son di coloro che non cercano danari per servire a Dio, ma servono a Dio per far danari. Che vituperio, scrive s. Girolamo, è il vedere un sacerdote applicato a far danari! Ignominia est sacerdotis studere divitiis.

Ma lasciamo da parte l’ignominia e parliamo del gran pericolo di perdersi in cui si mette un sacerdote intento ad accumular danari e robe: Ingenti periculo, dice s. Ilario, sunt sacerdotes qui occupantur in incrementis pecuniae1. E ben ciò l’avvertì prima l’apostolo, dicendo che questi tali, oltre l’esser molestati da molte sollecitudini che ne impediscono il profitto spirituale, cadono poi in tali tentazioni e desiderj che li inducono a perdersi: Qui volunt divites fieri, incidunt in tentationem… et desideria multa et nociva, quae mergunt homines in interitum et perditionem2. Ed in quali eccessi, oh Dio, son precipitati alcuni sacerdoti di furti, d’ingiustizie, di simonie e di sacrilegj, per 1a cupidigia di far danari! Dice s. Ambrogio: Qui aurum redigit, gratiam prodigit. S. Paolo assomiglia l’avarizia all’idolatria: Avarus, quod est idolorum servitus3. E con ragione, perché l’avaro fa che ‘l danaro diventi il suo Dio, cioè il suo ultimo fine.Tolle pecuniarum studium, et omnia mala sublata sunt, scrisse il Grisostomo4. Togliamo dunque, se vogliamo Dio, l’attacco a’ beni di questa terra. Dicea s. Filippo Neri: «Chi vuole robe non si farà mai santo». Le ricchezze di noi sacerdoti non hanno da esser le robe, ma le virtù: queste ci faranno grandi nel cielo ed insieme ci renderanno forti su questa terra contra i nemici della nostra salute. Così parla s. Prospero:Divitiae nostrae sunt pudicitia, pietas, humilitas, mansuetudo; istae ambiendae sunt, quae nos ornare possint pariter et munire5. Contentiamoci, esorta l’apostolo, d’un poco di vitto che ci sostenti e d’una semplice veste che ci cuopra: ed attendiamo a farci santi, ch’è quello che solo importa: Habentes… alimenta et quibus tegamur, his contenti simus6. A che servono questi beni di terra, se un giorno abbiamo da lasciarli e frattanto non contentano il nostro cuore? Attendiamo ad acquistarci quei beni che verranno con noi a farci sempre felici in paradiso: Nolite thesaurizare vobis thesauros in terra, ubi aerugo et tinea demolitur… Thesaurizate autem vobis thesauros in coelo7. Onde fu detto a’ sacerdoti nel concilio di Milano: Thesaurizate non thesauros in terra, sed bonorum operum et animarum in coelis8. Questi hanno da essere i tesori del sacerdote, le buone opere e gli acquisti d’anime.

Quindi la s. chiesa con tanto rigore e con censure proibisce agli ecclesiastici la negoziazione, secondo quel che prescrisse l’apostolo:Nemo militans Deo implicat se negotiis saecularibus, ut ei placeat cui se probavit9. Il sacerdote si è consacrato a Dio; dunque ad altri negozj non dee attendere che agli affari della sua gloria. Il Signore non accetta i sacrificj vacui, senza midolle. Diceva Davide: Holocausta medullata offeram tibi10. I sacrificj che offerisce a Dio (come sono la messa, gli uffizj e le altre opere di pietà) un sacerdote occupato

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ne’ traffichi, dice s. Pier Damiani, son sacrifizj vacui, perché ne toglie le midolle, cioè l’attenzione e la divozione, e ne offerisce la sola pelle, la sola apparenza esterna: Qui se per negotia saecularia fundit, holocausti sui medullas subtrahit, et solam victimae pellem Deo adolere contendit1. Che miseria è vedere un sacerdote che può salvare anime e fare grandi opere di gloria di Dio, occupato in far compre e vendite, negozj d’animali o di grano, società, mutui con interesse! Magnis addictus es, noli minimis occupari, scrisse Pietro Blessense. Che altro è l’attendere a far negozj di terra, dice s. Bernardo, se non attendere a far tele d’aragni? Fructus illorum quid nisi araneorum telae2? Come il ragno si sviscera per fare la sua tela, affin di prendere poi una mosca; così oh Dio! talun sacerdote si sviscera, perdendo il tempo e il frutto delle sue opere spirituali, e perché? per acquistare un poco di terra. Fatica, s’inquieta per niente, quando può possedere Dio, ch’è il Signore del tutto. Cur nos affligimus, esclama s. Bonaventura, circa nihil, cum possidere creatorem omnium valeamus3?

Ma dirà taluno: io fo le cose giuste; fo questi negozj, ma senza scrupolo di coscienza. Rispondo: primieramente agli ecclesiastici, come si è detto, è proibito il far negozj benché giusti; onde se non peccano contro la giustizia, almeno peccano contro il precetto della chiesa. Inoltre risponde s. Bernardo: Rivus qua fluit cavat terram, sic discursus temporalium conscientiam rodit4. Siccome il ruscello per dove passa rode la terra, così la cura de’ negozj rode la coscienza, viene a dire, sempre la fa mancare in qualche cosa. S’altro non fosse, dice s. Gregorio, la turba dei pensieri terreni chiude l’orecchio del cuore e non gli lascia sentire le voci divine:Aurem cordis terrenarum cogitationum turba, dum perstrepit, claudit5. In somma scrive s. Isidoro: Quanto se rerum studiis occupant, tanto a caritate divina se separant. È vero che alcuni son costretti dalla carità ad attendere agli affari della casa propria, ma ciò non si ha da permettere, dice s. Gregorio, se non in caso di pura necessità: Saecularia negotia aliquando ex compassione toleranda sunt, nunquam vero ex amore requirenda6. Alcuni sacerdoti senza necessità si assumono il pensiero della casa, anzi proibiscono a’ parenti che vi s’intrichino; ma se voleano attendere alla casa propria, perché farsi ministri della casa di Dio?

È molto pericoloso ancora ai sacerdoti per l’anima, il mettersi a servire nelle corti de’ grandi. Dice Pietro Blessense che siccome i santi si salvano per mezzo di molte tribolazioni, così quei che si mettono nelle corti per mezzo di molte tribolazioni si dannano: Per multas tribulationes intrant iusti in regnum coelorum; hi autem per multas tribulationes promerentur infernum7. È di molto pericolo similmente al sacerdote l’esser curiale, prendendo a difender le cause de’ litiganti. Dice s. Ambrogio: In foro Christus non reperitur8. Almeno, io dico, che fondo mai di spirito può avere un sacerdote che fa l’avvocato? Che officio,

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che messa divota può dire, quando gli affari delle cause gl’ingombrano tutta la mente e gl’impediscono di pensare a Dio? Le cause che ha da difendere il sacerdote sono le cause dei poveri peccatori, per liberarli colle prediche, colle confessioni o almeno colle ammonizioni ed orazioni, dalle mani del demonio e dalla morte eterna. Il sacerdote non solo dee fuggire di assumersi le liti degli altri, ma anche le liti proprie per quanto si può. Ogni lite di beni temporali è un seminario d’inquietudini, di rancori e di peccati. Perciò sta scritto nel vangelo: Ei qui vult tecum iudicio contendere et tunicam tuam tollere dimitte ei et pallium1. Questo già si sa ch’è consiglio; ma almeno procuriamo di scansar quelle liti che poco importano. Vincerai quella miseria temporale, vincerai quel punto, ma farai una gran perdita nello spirito e nella quiete: Perde aliquid, dice s. Agostino, ut Deo vaces, non litibus. Perde nummos, ut emas quietem2. Dicea s. Francesco di Sales3, che il litigare e non impazzire, appena si concede a’ santi; onde il Grisostomo condannava ognuno che litigasse:Hinc te condemno quod iudicio contendas4.

Che diremo de’ giuochi? Secondo i canoni è certo che il giuocare a’ giuochi di mera fortuna frequentemente e per lungo tempo o pure in grossa somma, almeno quando v’è scandalo degli altri, è peccato mortale. Degli altri giuochi poi che si chiamano di spasso io non voglio entrare qui a decidere se sieno per se stessi leciti o illeciti; ma dico che tali divertimenti poco certamente convengono ad un ministro di Dio, che, se vuol adempire il suo obbligo in quanto a sé ed al prossimo, non ha certamente tempo soverchio da spendere in giuocare. Io leggo che s. Gio. Grisostomo dice: Diabolus est qui in artem ludos digessit. Leggo che s. Ambrogio scrive: Non solum profusos, sed omnes iocos declinandos arbitror5. Dice nello stesso luogo esser ben lecito il sollievo, ma non quel sollievo che scompone il buon ordine della vita o che non conviene allo stato; quindi dice: Licet interdum honesta ioca sint, tamen ab ecclesiastica abhorrent regula.

Per secondo, il sacerdote dee toglier l’attacco agli onori mondani. Dice Pietro Blessense che l’ambizione degli onori è la ruina delle anime:Animarum subversio est ambitio. Poiché l’ambizione sconvolge tutto l’ordine della buona vita e della carità verso Dio. L’ambizione è, dice lo stesso autore6, una scimia della carità, ma tutta all’opposto: la carità tutto patisce, ma per li beni eterni; l’ambizione omnia patitur, sed pro caducis. La carità è tutta benigna co’ poveri; l’ambizione benigna est sed divitibus. La carità tutto soffre per dar gusto a Dio; l’ambizione omnia suffert pro vanitate. La carità crede e spera tutto ciò che appartiene alla gloria eterna, l’ambizione omnia credit, omnia sperat, sed quae sunt ad gloriam huius vitae. Gli ambiziosi oh quante spine di timori, di rimproveri, di negative e d’oltraggi han da soffrire per ottenere quella dignità, quell’officio! In honorum cupiditate quantae spinae! dice s. Agostino7. E finalmente che acquistano, se non un

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poco di fumo, che posseduto non sazia e tra breve colla morte sparisce?Vidi impium superexaltatum et elevatum sicut cedros Libani; transivi, et ecce non erat1. Oltreché dice la scrittura che l’onore a chi lo prende diventa vitupero: Stultorum exaltatio ignominia2. E quanto più l’onore è grande, dice s. Bernardo, tanto più l’indegno che se l’ha procurato ne resta vituperato dagli altri: Eo deformior, quo illustrior. Perché quanto è maggior l’onore, tanto più l’indegno che lo pretende fa conoscere la sua indegnità: Claras suas maculas reddit3.

Si aggiunga il gran pericolo della salute eterna che portano seco gli officj onorevoli. Il p. Vincenzo Carafa visitando un suo amico infermo a cui era stato conferito un officio di molto lucro ma di gran pericolo, quegli lo pregò ad impetrargli da Dio la sanità; ma esso rispose: «No, amico, tolga Dio ch’io tradisca l’amor che vi porto; questa è grazia che il Signore vi fa, perché vi vuol salvo, in mandarvi la morte or che vi trovate in buono stato, il che forse non sarebbe appresso per l’officio in cui v’intrichereste». E così l’amico se ne morì e morì tutto consolato. E specialmente dee temersi di quegli officj che importano cura d’anime. Dicea s. Agostino che molti l’invidiavano per essere vescovo, quando egli se ne affliggea per lo pericolo in cui la dignità lo metteva: Invident nos; ibi nos felices putant ubi periclitamur4. S. Giovan Grisostomo, quando fu fatto vescovo, fu sorpreso da tal timore, come egli poi disse, che sentiva dividersi quasi l’anima dal corpo, poiché molto dubitava della salvazione d’un pastore d’anime, dicendo: Miror an fieri possit ut aliquis ex rectoribus salvus fiat. Or se i santi, forzati contro lor voglia ad esser prelati, tremano per ragion del conto che ne han da rendere a Dio, come non tremerà chi per ambizione s’ingerisce ad aver cura d’anime? Mensura honoris, scrisse s. Ambrogio, mensura debet esse gestantis, alioquin oneris fit ruinae, ubi actoris infirmitas est5. Un uomo debole che si addossa un gran peso, in vece di portarlo resterà da quello oppresso. Dice s. Anselmo che chi desidera di aver gli onori ecclesiastici o per fas o per nefas, costui non li riceve, ma li rapisce: Qui honores ecclesiasticos accipere cupit, non sumit, sed rapinam facit6. Lo stesso scrisse s. Bernardo: Vineis dominicis se ingerentes, fures sunt, non cultores7. Giusta quel che disse già Dio per Osea8: Ipsi regnaverunt et non ex me. E quindi poi ne nasce, come dicea s. Leone9, che la chiesa governata da tali ministri ambiziosi non vien servita e decorata, ma vilipesa e sporcata:Corpus ecclesiae ambientium contentione foedatur. Osserviamo dunque il bel documento di Gesù Cristo: Recumbe in novissimo loco10. Chi siede in terra non ha paura di cadere. Siamo cenere. Cineri expedit, dice l’angelico, ne in alto sit, ne disperdatur a vento11. Beato quel sacerdote che può dire: Elegi abiectus esse in domo Dei mei magis quam habitare in tabernaculis peccatorum12!

Per terzo, bisogna togliere l’attacco a’ parenti: Si quis… non odit patrem suum et matrem… non potest meus esse discipulus, dice Gesù

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Cristo1. Ma come dobbiamo odiare i parenti? Dobbiamo sconoscerli, dice un dotto autore, in tutto ciò in cui si oppongono al nostro profitto spirituale:. Si prohibeant ne vitam secundum ecclesiasticae disciplinae normam instituamus, si negotiis saecularibus nos implicent, tunc eos, tanquam adversarios, odisse et fugere tenemur2. E prima lo disse s. Gregorio: Quos adversarios in via Dei patimur, odiendo et fugiendo nesciamus3. Scrisse Pietro Blessense: Non eligitur sacerdos, nisi qui dixerit patri suo et matri suae: nescio vos4. S. Ambrogio scrisse che chi desidera servire a Dio dee negarsi a’ suoi: Suis se abneget, qui servire Deo gestit5. Debbono onorarsi i genitori, ma prima dee ubbidirsi a Dio:Honorandus est pater, sed obediendum est Deo, dice s. Agostino6. Il voler usare una gran pietà verso de’ suoi, lasciando di ubbidire a Dio, dice s. Girolamo che non è pietà, ma empietà: Grandis in suos pietas, impietas in Deum est7. Il nostro Redentore si protestò ch’egli era venuto in terra a separarci da’ nostri parenti: Veni… separare hominem adversus patrem suum etc.8. E perché? perché, disse, negli affari dello spirito i nostri parenti sono i nostri maggiori nemici: Inimici hominis domestici eius9. Quindi ci avverte s. Basilio a fuggir come tentazione del demonio la cura delle robe de’ nostri parenti. Che miseria! vedere un sacerdote che potrebbe salvare molte anime, tutto occupato a fare i negozj della casa ed attendere alla massaria, alla greggia delle pecore e simili! Come? esclama s. Girolamo, un sacerdote ha da lasciare il servizio del padre celeste, per compiacere il padre terreno? Propter patrem militiam patris deseram10? Dice il santo che quando si tratta di andare a servire Dio il figlio dee calpestare anche il padre se bisogna: Quid facies in paterna domo, delicate miles? ubi vallum? ubi fossa? Licet in limine pater iacet, per calcatum perge patrem, siccis oculis ad vexillum crucis avola. Solum pietatis genus est in hac re esse crudelem11.

Narra s. Agostino12, che s. Antonio abate ricevendo lettere da’ suoi, le buttava al fuoco dicendo: Comburo vos, ne comburar a vobis. Dice s. Gregorio che dee staccarsi da’ parenti chi vuole unirsi con Dio: Extra cognatos quisque debet fieri, si vult parenti omnium iungi13. Altrimenti, dice Pietro Blessense, l’amore del sangue presto ci priverà dell’amore di Dio: Carnalis amor extra Dei amorem cito te capiet14. Difficilmente si trova Gesù Cristo tra’ parenti. Quomodo te, bone Iesu, diceva s. Bonaventura, inter meos cognatos inveniam, qui inter tuos minime es inventus15? Allorché la divina Madre ritrovò Gesù nel tempio e gli disse:Fili, quid fecisti nobis sic? Rispose il Redentore: Quid est quod me quaerebatis? nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse16? Così dee rispondere il sacerdote a’ parenti, allorché vogliono imporgli la cura della casa: io son sacerdote, non posso attendere che alle cose di Dio; a voi che siete secolari, a voi tocca attendere alle cose del secolo. Ciò appunto volle significare il Signore a quel

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giovine chiamato da lui alla sua sequela, allorché, cercando quegli licenza per andare a seppellire il padre, gli disse: Dimitte mortuos sepelire mortuos suos1.

Sovra tutto bisogna toglier l’attacco alla propria volontà. Dicea s. Filippo Neri che la santità consiste in quattro dita di fronte, cioè in mortificare la propria volontà. Scrisse Blosio che fa cosa più cara a Dio chi mortifica la sua volontà che se restituisse la vita a’ morti: Acceptius Deo obsequium praestat homo mortificans suam voluntatem quam si mortuos ad vitam revocaret. Quindi molti sacerdoti, parrochi ed anche vescovi che menavano vita esemplare, applicati ben anche alla salute delle anime, non contenti di tutto ciò, han procurato di entrare in qualche religione per vivere sotto l’ubbidienza d’altri, credendo, come in fatti è, non potersi offerire a Dio sacrificio più gradito della propria volontà. Non tutti sono chiamati allo stato religioso, ma chi vuol camminare per la via della perfezione bisogna che almeno sottoponga la sua volontà all’ubbidienza (oltre l’ubbidienza dovuta al suo prelato) d’un padre spirituale, che lo diriga in tutti gli esercizj di spirito ed anche negli affari temporali di maggior peso che riguardano il profitto dell’anima. Quello che si fa di propria volontà niente o poco giova. In die ieiunii… invenitur voluntas vestra2. Onde s. Bernardo poi scrisse: Grande malum propria voluntas, qua fit ut bona tua tibi bona sint. Il maggior nemico che abbiamo è la propria volontà: Cesset propria voluntas, et infernus non erit; dicea lo stesso s. Bernardo3. L’inferno è pieno di proprie volontà. De’ nostri peccati chi mai, se non la nostra volontà propria, è stata la causa? Confessa di se stesso piangendo s. Agostino che quando stava in peccato era spinto dalla grazia a lasciarlo, ma egli resistea legato non da altra catena che della propria volontà: Ligatus non ferro alieno, sed mea ferrea voluntate. Dicea s. Bernardo che la propria volontà è così contraria a Dio che lo distruggerebbe, se Dio potesse esser distrutto: Quantum in seipsa est, Deum perimit propria voluntas4. Chi si fa discepolo di se stesso, scrive lo stesso santo, si fa discepolo d’uno stolto: Qui se sibi magistrum constituit, stulto se discipulum subdit.

Bisogna intendere che tutto il nostro bene sta nell’unirci alla divina volontà: Et vita in voluntate eius5. Ma Iddio, ordinariamente parlando, questa sua volontà non ce la fa sapere che per mezzo de’ nostri superiori, cioè de’ prelati o direttori: Qui vos audit me audit, egli dice6. E poi soggiunge: Et qui vos spernit me spernit. Onde dicesi nella scrittura essere una specie d’idolatria il non acquetarsi all’ubbidienza de’ superiori:Quasi scelus idololatriae nolle acquiescere7. All’incontro ci assicura s. Bernardo che in quello che ci dice il padre spirituale, purché non sia peccato certo, dobbiamo stare così sicuri come ce lo dicesse lo stesso Dio. Beato chi potesse dire in morte ciò che dicea l’abate Giovanni:Nunquam meam feci voluntatem; nec quemquam docui quod prius non feci! Onde scrisse poi Cassiano, il quale ciò narra, che colla mortificazione della propria volontà

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si distruggono tutti i vizj: Mortificatione voluntatum marcescunt vitia universa1. E prima lo disse il Savio: Vir obediens loquitur victorias2. Ed in altro luogo. Melior est… obedientia quam victimae3. Poiché chi sacrifica a Dio le limosine, i digiuni, le penitenze, gli sacrifica parte; ma chi dà la sua volontà, soggiogandola all’ubbidienza, gli dona tutto quel che può; onde può dire poi a Dio: Signore, avendovi data la mia volontà, non ho più che darvi. E perciò scrisse s. Lorenzo Giustiniani che chi sacrifica a Dio la volontà propria otterrà da Dio quanto dimanda: Qui se Deo tradidit, voluntatem propriam immolando, omne quod poposcerit consequetur. E Dio stesso promette a chi gli rinunzia la propria volontà di sollevarlo dalla terra e farlo uomo celeste: Si averteris… facere voluntatem tuam… sustollam te super altitudinem terrae4.

I mezzi poi per vincer se stesso in tutte le passioni disordinate sono questi: per 1. l’orazione; chi prega ottiene tutto. Oratio, cum sit una, omnia potest, disse s. Bonaventura. E prima lo disse Gesù Cristo:Quodcumque volueritis, petetis, et fiet vobis5. Per 2. il farsi violenza con volontà risoluta; volontà risoluta vince tutto. Per 3. l’esame sopra quella passione che c’infesta, con imporci qualche penitenza, sempre che ci difettiamo. Per 4. il reprimere i molti desiderj. Dicea s. Francesco Saverio: «Io voglio poche cose, e quelle che voglio le voglio debolmente». Per 5. il mortificarsi nelle cose piccole ed anche nelle cose lecite, perché così ci avvezzeremo a vincer le grandi: col privarci per esempio di dir quella facezia, di toglierci quella curiosità, di cogliere quel fiore, di aprir subito quella lettera, di prenderci quell’impegno, con farne un sacrificio a Dio, senza curarsi che vi si resti con poco onore. Qual frutto ci troviamo di tante soddisfazioni prese e di tanti impegni superati? Se in tali occasioni ci fossimo mortificati, quanti meriti ora ci troveremmo acquistati appresso Dio? Per l’avvenire attendiamo a guadagnarci qualche cosa per l’eternità. Pensiamo che ci andiamo accostando alla morte. Quanto più ci mortificheremo, meno patiremo nel purgatorio ed acquisteremo in paradiso maggior gloria, e questa sarà eterna. Su questa terra ci stiamo di passaggio; presto saremo all’eternità. Concludo con s. Filippo Neri: «Pazzo chi non si fa santo!»

3 Eccle. 7. 30.

4 Gal. 5. 17.

5 Rom. 7. 23.

6 Ier. 1. 10.

7 Matth. 5. 8.

8 Serm. 2. in Ascens.

9 28. 9.

10 1. Cor. 2. 14.

11 Psalm. 54. 9.

12 Serm. 1. de annunt.

13 Cant. 5. 1.

14 Rom. 8. 29.

1 Matth. 16. 24.

2 53. 3.

3 2. Cor. 4. 10.

4 Cant. 3. 6.

5 Cant. 4. 6.

6 Matth. 16. 24.

1 Serm. 20. de sanctis.

2 Rom. 2. 29.

3 Ps. 80. 13.

4 Eccli. 23. 6.

5 Declam. c. 1.

6 Decl. c. 14

7 Ps. 18. 6.

1 Ad Celantiam.

2 Rom. 15. 3.

3 Epist. 103.

4 Ps. 15. 5.

5 Ad past. in syn.

1 In ps. 158.

2 1. Tim. 6. 9.

3 Ephes. 5. 5.

4 Hom. 17. in 1. ad Tim. c. 6.

5 De vita cont. c. 13.

6 1. Tim. 6. 8.

7 Matth. 6. 19. et 20.

8 Part. 3.

9 2. Tim. 2. 4.

10 Ps 65. 15.

1 Apol. c. 12.

2 L. 1. de cons. c. 6.

3 Stim. p. 9. c. 2.

4 L. 4. de cons. c. 6.

5 Mor. l. 23. c. 12.

6 Past. 2. c. 7.

7 Epist. 14.

8 De virgin. c. 8.

1 Matth. 5. 40.

2 Serm 24. de verb. apost.

3 Epist. 30.

4 Hom. 16. in 1. Cor. c. 6.

5 L. 1. offic. c. 23.

6 Ep. 14.

7 In ps. 102

1 Ps. 36. 35. et 36.

2 Prov. 3. 35.

3 Cassiod. l. 12. ep. 12.

4 Serm. 63. de verb. Dom.

5 L. de. viduis.

6 In cler.

7 Serm. 28. in Cant.

8 8. 4.

9 Epist. 1.

10 Luc. 14. 10.

11 L. 1. c. 1. de reg. princ.

12 Ps. 83. 11.

1 Luc. 14. 26.

2 Abelly, Sac. christ. p. 4. c. 6.

3 Hom. 37. in ev.

4 Ep. 123.

5 De fuga saec. c. 2.

6 De verb. Dom. serm. c. 2.

7 Epist. 15.

8 Matth. 10 35.

9 Ib. 36.

10 Epist. ad Heliod.

11 Loco cit.

12 Serm. 40. ad fratr. erem.

13 Mor. l. 7. c. 14.

14 Epist. 134.

15 Spec. p. 1. c. 23.

16 Luc. 2 49.

1 Matth. 8. 22.

2 Isa. 58. 3.

3 Serm. 3. de resurr.

4 De dil. Deo c. 16.

5 Ps. 29. 6.

6 Luc. 10. 16.

7 1. Reg. 15. 23.

1 L. 5. de inst. l. 4. c. 43.

2 Prov. 21. 28.

3 1. Reg. 15. 22.

4 Isa. 58. 13. et 14.

5 Io. 15. 17.


 
 
 

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