SAN TOMMASO D’AQUINO SUMMA THEOLOGICA – GLI ATTEGGIAMENTI DEL CORPO

SAN TOMMASO D’AQUINO SUMMA THEOLOGICA – GLI ATTEGGIAMENTI DEL CORPO

La modestia negli atteggiamenti esterni del corpo

Veniamo ora a considerare la modestia negli atteggiamenti esterni del corpo.
A questo proposito esamineremo quattro cose: 1. Se gli atteggiamenti seri esterni del corpo possano essere oggetto di virtù o di vizi; 2. Se possa esserci una virtù nelle azioni giocose; 3. Il peccato che per eccesso si compie nel gioco; 4. Il peccato che si compie nel gioco per difetto.

ARTICOLO 1

Se gli atteggiamenti esterni del corpo siano oggetto di qualche virtù

SEMBRA che gli atteggiamenti esterni del corpo non siano oggetto di nessuna virtù. Infatti:
1. Tutte le virtù rientrano nella bellezza spirituale dell’anima, a proposito della quale si legge: “Tutta la gloria di lei, figlia del re, è all’interno”, “ossia nella coscienza”, spiega la Glossa. Ora, gli atteggiamenti del corpo non sono interni, ma esterni. Dunque codesti atteggiamenti non possono essere oggetto di virtù.
2. Come Aristotele insegna, “le virtù non sono in noi per natura”. Invece i moti esterni del corpo sono dovuti alla natura: cosicché alcuni sono più veloci, altri più lenti; e lo stesso si dica delle altre proprietà di questi moti. Perciò tali moti non sono oggetto di virtù.
3. Tutte le virtù morali, o riguardano gli atti esterni che si riferiscono al prossimo, come la giustizia; oppure le passioni, come la temperanza e la fortezza. Ora, i moti esterni del corpo non servono agli altri e non riguardano le passioni. Dunque non sono oggetto di nessuna virtù.
4. Ogni atto virtuoso esige una certa cura, come sopra abbiamo visto. Invece aver cura degli atteggiamenti esterni è riprovevole: scrive infatti S. Ambrogio: “C’è un incedere degno di approvazione e che denota autorità, gravità, tranquillità; però senza cura ricercata o affettazione, ma un atteggiamento schietto e spontaneo”. Perciò non c’è nessuna virtù riguardo all’atteggiamento esterno.

IN CONTRARIO: La bellezza dell’onestà è propria della virtù. Ora, la compostezza degli atteggiamenti esterni rientra in tale bellezza; scrive infatti S. Ambrogio: “Come non approvo nella voce e nel gesto niente di svenevole e di languido, così non approvo niente di rozzo e di villano… Imitiamo la natura, che è esempio di disciplina e modello di onestà”. Dunque la compostezza degli atteggiamenti esterni è oggetto di virtù.

RISPONDO: La virtù morale consiste nel regolare con la ragione gli atti umani. Ora, è evidente che gli atteggiamenti esterni dell’uomo sono ordinabili dalla ragione: poiché le membra esterne sono mosse dal comando di essa. Perciò è evidente che codesti moti sono oggetto di una virtù morale.
Ora, l’ordine di questi moti deve badare a due cose: primo, al decoro personale; secondo, alle attenzioni dovute ad altre persone, a cose, o a luoghi. Di qui le parole di Andronico: “Vivere in bellezza è rispettare le convenienze di ogni sesso e di ogni persona… Ecco il miglior modo di agire; ecco l’ornamento più indicato di ogni nostra azione”.
Ed ecco perché egli nomina due disposizioni a proposito di questi moti esterni. “Il decoro” che riguarda la persona interessata; e che a suo dire è “la scienza delle buone creanze e nel moto e nell’atteggiamento”; e “il buon ordine”, che riguarda le attenzioni dovute ai negozi che si trattano o alle circostanze; e che a suo dire è “l’esperienza del discernimento”, consiste cioè nel distinguere tra un’azione e l’altra.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Gli atteggiamenti esterni sono l’indice delle disposizioni interne; poiché sta scritto: “Il vestire del corpo, e il riso dei denti, e il camminare d’un uomo dan conto di lui”. E S. Ambrogio afferma, che “le disposizioni dell’anima si scorgono nell’atteggiamento del corpo”; e che “i moti del corpo sono un’espressione dell’animo”.
2. Sebbene l’uomo sia per natura predisposto a questo o a quell’altro atteggiamento esterno, tuttavia si può supplire con la ragione a quello che manca alla natura. Di qui le parole di S. Ambrogio: “I moti siano informati alla natura: ma se nella natura c’è un vizio si corregga con l’educazione”.
3. I moti esterni sono, come abbiamo detto, l’indice delle disposizioni interiori, che sono determinate soprattutto dalle passioni. Perciò la disciplina dei moti esterni richiede la disciplina delle passioni interne. S. Ambrogio anzi afferma, che da questo, cioè dai moti esteriori, “si conosce se il nostro uomo interiore è leggero, superbo, o agitato; oppure se è grave, costante, illibato e maturo”.
Inoltre dai moti esterni siamo giudicati dagli altri uomini, secondo le parole dell’Ecclesiastico: “Dall’aspetto si conosce l’uomo, e dal come una persona si presenta si conosce il saggio”. Perciò la disciplina dei moti esterni in qualche modo è ordinata agli altri, come accenna S. Agostino nella Regola: “In tutto il vostro comportamento non fate nulla che offenda l’altrui sguardo, ma sia conforme alla vostra santità”.
Ecco perché la disciplina dei moti esteriori si può ridurre alle due virtù di cui parla il Filosofo nel quarto libro dell’Etica. Questi moti esterni in quanto ordinano i nostri rapporti con gli altri sono oggetto dell'”amicizia o affabilità”, la quale ha il compito di partecipare con le parole e con i fatti alle gioie e ai dolori delle persone con le quali si convive. Invece in quanto sono i segni delle disposizioni interiori essi sono oggetto della “veracità”, o sincerità, con la quale uno si mostra a parole e a fatti qual è interiormente.
4. Nella compostezza dei moti esterni viene biasimata quella cura con la quale uno arriva a travisare con essi le disposizioni interiori. Tuttavia bisogna metterci quella cura che è necessaria per correggerne i difetti. Di qui l’ammonizione di S. Ambrogio: “Si elimini l’artificio, ma non manchi la correzione”.

ARTICOLO 2

Se il gioco possa essere oggetto di virtù

SEMBRA che il gioco non possa essere oggetto di virtù. Infatti:
1. S. Ambrogio scrive: “Il Signore ha detto: “Guai a voi che ora ridete, perché piangerete”. Perciò io penso che si debbano evitare non solo i giochi smodati, ma tutti i giochi”. Ora, ciò che si può compiere in modo virtuoso non è da evitarsi totalmente. Dunque il gioco non può essere oggetto di virtù.
2. La virtù, come sopra abbiamo detto, “viene prodotta in noi dal Signore, senza di noi”. Ora, il Crisostomo afferma: “Non Dio ma il diavolo ispira il gioco. Ascolta quello che capitò ai giocatori: “Il popolo sedette per mangiare e bere, e poi alzatisi si misero a giocare””. Quindi non può esserci una virtù riguardante il gioco.
3. Il Filosofo insegna, che “i giochi non sono ordinati ad altro fine”. Invece per la virtù si richiede “che si agisca per un fine”, com’egli dice. Perciò il gioco non può essere oggetto di nessuna virtù.

IN CONTRARIO: Scrive S. Agostino: “Voglio inoltre che tu abbia compassione di te stesso; poiché è bene che il savio allenti la tensione dell’animo”. Ora, il rilassamento dell’animo dal lavoro si compie con parole e con atti scherzosi. Dunque alla persona sapiente e virtuosa spetta ogni tanto ricorrere a queste cose. – Inoltre il Filosofo a proposito del gioco parla dell’eutrapelia, che noi potremmo denominare giovialità.

RISPONDO: L’uomo, come ha bisogno del riposo fisico per ritemprare il corpo, il quale non può lavorare di continuo per la limitazione delle sue energie, così ne ha bisogno per l’anima, le cui forze sono adeguate solo per determinati impieghi. Perciò quando l’animo si occupa oltre le sue forze in qualche lavoro, sente lo sforzo e la fatica: specialmente perché nelle attività dell’anima collabora anche il corpo; poiché anche l’anima intellettiva si serve di facoltà che agiscono mediante organi corporei. Ora, ci sono dei beni sensibili connaturali all’uomo. Perciò quando l’anima occupata in attività di ordine razionale, sia in campo pratico che speculativo, si eleva al di sopra delle cose sensibili, ne risente una fatica. Fatica però che è più grande se attende all’attività contemplativa, perché allora è più astratta dai sensi: sebbene la fatica del corpo in certe attività della ragione pratica sia maggiore. Tuttavia, sia nel primo che nel secondo caso, uno si affatica tanto di più, quanto è più grande l’impegno col quale attende alla sua attività razionale. Ebbene, come la fatica fisica si smaltisce col riposo del corpo, così la fatica dell’anima deve smaltirsi con il riposo dell’anima. Ora, il riposo dell’anima è il piacere, come abbiamo detto sopra nel trattato delle passioni. Perciò per lenire la fatica dell’anima bisogna ricorrere a un piacere, interrompendo la fatica delle occupazioni di ordine razionale. Nelle Collationes Patrum si narra che S. Giovanni Evangelista, poiché alcuni si scandalizzavano per averlo trovato mentre giocava con i suoi discepoli, comandasse a uno di loro, armato di arco di lanciare una freccia. E avendo costui fatto questo più volte, gli domandò se poteva ripetere di continuo quel gesto. L’arcere rispose che in tal caso l’arco si sarebbe spezzato. E allora S. Giovanni replicò che anche l’animo si spezzerebbe, se mai gli fosse concesso un po’ di riposo.
Ora, le parole e gli esercizi in cui si cerca soltanto la distensione dell’animo, si denominano appunto scherzosi, o giocosi. Quindi è necessario ricorrere ad essi a ristoro dell’anima. Ecco perché il Filosofo afferma, che “nel corso della vita si ha un riposo nel gioco”: e quindi talora bisogna ricorrervi.
Però in proposito si deve badare specialmente a tre cose. Prima di tutto che questo piacere non si cerchi mai in atti, o in parole turpi o dannose. Cicerone scrive in proposito, che “c’è un tipo di gioco scortese, insolente, delittuoso ed osceno”. – La seconda cosa da badare è che l’anima non abbandoni del tutto la sua gravità. Di qui le parole di S. Ambrogio: “Nel rilassare l’animo badiamo a non sconcertare tutta la melodia e l’armonia delle opere buone”. E Cicerone scrive, che “come ai fanciulli non diamo ogni libertà nel gioco, ma solo quella che non si scosta dall’onestà; così anche nel nostro gioco deve brillare la luce dell’animo retto”. – In terzo luogo si deve badare, come in tutte le altre azioni umane, a che il divertimento sia adatto alle persone, al tempo, al luogo e a tutte le altre debite circostanze: e cioè, come dice Cicerone, a che “sia degno del tempo e dell’uomo”.
Ora, tutte queste norme sono ordinate dalla ragione. Ma un abito che agisce in conformità con la ragione è una virtù. Quindi il gioco può essere oggetto di una virtù, che il Filosofo chiama “eutrapelia”. E si dice che uno è eutrapelos da buona girata: poiché sa volger bene in scherzo fatti e parole. E siccome questa virtù fa evitare gli eccessi nel gioco, essa rientra nella modestia.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Lo scherzo deve essere adatto, come abbiamo spiegato, alle cose e alle persone. Ecco perché Cicerone scrive, che quando gli uditori sono stanchi, “può essere utile all’oratore rifarsi a qualche cosa di nuovo e di ridicolo: purché la gravità dell’argomento non escluda la possibilità di scherzare”. Ora, l’insegnamento sacro verte sulle cose più importanti, secondo le parole della Sapienza: “Udite, perché sto parlando di cose grandi”. Perciò S. Ambrogio non esclude totalmente il gioco dal vivere umano, ma dall’insegnamento sacro. Aveva infatti già detto in precedenza: “Sebbene talora lo scherzo sia onesto e gradito, tuttavia esso non è compatibile con la disciplina ecclesiastica: e come noi oseremo introdurre quello che non si riscontra nella sacra Scrittura?”.
2. Le parole del Crisostomo si riferiscono a quelli che abusano del gioco: e specialmente a coloro che mettono nel piacere del gioco il loro ultimo fine; come quelli di cui parla la Scrittura: “Pensano che la nostra vita sia un gioco”. Contro di essi Cicerone afferma: “Non siamo stati generati dalla natura per il gioco e il divertimento; ma piuttosto per le cose serie, e per degli impegni più gravi e più importanti”.
3. I giochi secondo la loro natura non sono ordinati a un fine. Ma il piacere che procurano è ordinato alla ricreazione e al riposo dell’anima. E per questo è lecito servirsene, se si praticano con moderazione. Scrive infatti Cicerone: “È lecito anche il gioco e il divertimento; ma solo dopo aver soddisfatto gli impegni gravi e seri, cioè come è lecito il sonno e ogni altro riposo”.

ARTICOLO 3

Se nel gioco si possa peccare per eccesso

SEMBRA che nel gioco non si possa peccare per eccesso. Infatti:
1. Ciò che può scusare da un peccato non può essere un peccato. Ora, il gioco talora scusa dal peccato: poiché ci sono molte cose che se fossero compiute seriamente, sarebbero gravi peccati; fatte invece per gioco sono peccati leggeri o non lo sono affatto. Dunque nel gioco non si può peccare per eccesso.
2. Tutti gli altri vizi si riducono ai sette capitali, come insegna S. Gregorio. Ma eccedere nel gioco non si riduce a nessuno dei vizi capitali. Quindi non è peccato.
3. Chi più eccede nel gioco sono i giocolieri, i quali ordinano al gioco tutta la loro vita. Ora, se l’eccesso nel gioco fosse peccato, tutti i giocolieri sarebbero in peccato. E peccherebbero, come fautori del vizio, tutti quelli che se ne servono, o che fanno loro qualche elargizione. Il che evidentemente è falso. Infatti si legge nelle Vitae Patrum che al (monaco) S. Pafnuzio fu rivelato che un giocoliere sarebbe stato con lui alla pari nella vita futura.

IN CONTRARIO: A proposito di quel testo dei Proverbi: “Il riso sarà mescolato col dolore, e all’estremità della gioia succederà il lutto”, la Glossa aggiunge: “il lutto perpetuo”. Ora, l’eccesso del gioco implica riso smodato e gioia scomposta. Dunque tale eccesso è peccato mortale, cui è riservato il lutto perpetuo.

RISPONDO: In tutto ciò che può essere regolato dalla ragione si ha un eccesso quando si supera la norma della ragione, e si ha un difetto quando non si raggiunge tale norma. Ora, sopra abbiamo visto che le parole e gli atti scherzosi possono essere regolati dalla ragione. Perciò l’eccesso del gioco sta nel non rispettare la regola della ragione. E questo può avvenire in due modi. Primo, a motivo della natura stessa delle azioni, nelle quali si cerca il divertimento; ed è appunto questo tipo di divertimento che Cicerone chiama “scortese, insolente, delittuoso ed osceno”: poiché per gioco si ricorre a parole e ad atti turpi, oppure a cose che fanno male al prossimo, e che sono peccati mortali. E allora è evidente che l’eccesso nel gioco è peccato mortale.
Secondo, l’eccesso nel gioco può avvenire, perché non si rispettano le circostanze debite: quando, p. es., si insiste nel gioco nei tempi e nei luoghi non adatti, oppure non si rispettano le convenienze delle cose e delle persone. E anche questo talora può essere peccato mortale, per l’attaccamento dell’affetto al gioco, fino al punto di preferire il piacere di un divertimento all’amore di Dio, o da agire contro la legge di Dio e della Chiesa per non rinunziare a un gioco. Talora invece è peccato veniale: quando cioè non si è così attaccati al gioco da voler commettere per questo qualche cosa contro la legge di Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Certe cose son peccato solo per l’intenzione cattiva, cioè perché son fatte a spregio di qualcuno: e il gioco esclude appunto questa intenzione, perché mira al divertimento e non all’ingiuria altrui. E in questi casi il gioco scusa dal peccato, o lo diminuisce. – Ci sono invece delle cose che per loro natura sono peccati: come l’omicidio, la fornicazione e simili. E queste non sono scusate dal gioco: anzi a motivo di esse il gioco diviene “delittuoso ed osceno”.
2. L’eccesso nel gioco rientra nella sciocca allegria, che S. Gregorio mette tra le figlie della gola. Infatti nell’Esodo si legge: “Il popolo sedette per mangiare e bere, e poi alzatisi si misero a giocare”.
3. Il gioco, come abbiamo detto, è un’esigenza della vita umana. Ora, per ciascuna di queste esigenze può essere deputato un mestiere corrispondente. Perciò anche l’arte dei giocolieri, che è ordinata a divertire gli uomini, di suo non è illecita, ed essi non sono in stato di peccato: purché non abusino del gioco, ricorrendo a parole e ad atti illeciti, o non badando alle circostanze e al tempo che non lo permettono. E sebbene costoro nella società non abbiano altre mansioni, tuttavia rispetto a Dio e a se stessi esercitano anche altre funzioni serie e virtuose: ossia pregano, regolano le loro passioni e i loro atti, e talora fanno anche l’elemosina ai poveri. Perciò quelli che moderatamente li sovvenzionano non fanno peccato, ma un atto di giustizia, dando loro la mercede che si meritano.
Pecca invece chi sperpera i suoi beni per questi giocolieri, oppure sostenta quelli che fanno dei giochi illeciti, perché così li incoraggia a peccare. Ecco quindi perché S. Agostino afferma, che “regalare i propri beni agli istrioni è un vizio mostruoso”. A meno che un giocoliere simile non sia in estrema necessità: ché allora bisogna sempre soccorrerlo. Dice infatti S. Ambrogio: “Nutri chi muore di fame. Ché se tu, chiunque sia, puoi salvare un uomo sfamandolo, e non lo sfami, l’uccidi”.

ARTICOLO 4

Se nel gioco si possa peccare per difetto

SEMBRA che nel gioco non si possa peccare per difetto. Infatti:
1. Ai penitenti non può essere raccomandato nessun peccato. Ora, S. Agostino scrive: “Si astenga dai divertimenti e dagli spettacoli del secolo, chi vuol conseguire perfettamente la grazia del perdono”. Dunque nel divertimento non si può mai peccare per difetto.
2. Nessun peccato può essere inserito tra le lodi dei Santi. Ora, a lode di certi Santi si legge che si astennero dal gioco. Geremia, p. es., dice di se stesso: “Io non sedetti a brigata con quelli che si sollazzavano”; e in Tobia si leggono queste parole (di Sara): “Non mi son mai mescolata con quelli che scherzano, né ho preso parte con quelli che operano alla leggera”. Perciò nel fuggire il divertimento non ci può mai essere peccato.
3. Andronico, enumerando tra le virtù “l’austerità”, dice che “essa è l’abito per il quale alcuni non offrono e non ricevono da altri il piacere della conversazione”. Ma questa è mancanza assoluta di divertimento. Dunque nel divertimento non si può mai peccare per difetto.

IN CONTRARIO: Il Filosofo insegna che nel gioco si può peccare per difetto.

RISPONDO: Nelle cose umane tutto quello che va contro la ragione è peccaminoso. Ora, è contro la ragione essere di peso agli altri col non mostrarsi mai piacevoli, o con l’impedire il divertimento altrui. Di qui l’ammonimento di Seneca: “Comportati con tale saggezza da non mostrarti intrattabile con nessuno, da non essere mai volgare”. Ora, quelli che rispetto al gioco peccano per difetto “non dicono mai niente da ridere; e non tollerano che altri lo facciano”; perché non accettano gli scherzi degli altri. Essi quindi sono in difetto: e dal Filosofo sono denominati “rustici”.
Siccome però il gioco è ordinato al divertimento e al riposo, e queste due cose non vanno cercate per se stesse nella vita umana, ma “per la (normale) attività”, come dice Aristotele, peccare per difetto è nel gioco meno grave che peccare per eccesso. Per questo il Filosofo afferma, che “pochi devono essere gli amici nel divertimento”; perché basta poco divertimento come per dar sapore alla vita; cioè come nel cibo basta un po’ di sale.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Ai penitenti è imposta l’afflizione per i peccati commessi, e quindi è loro proibito il divertimento. Ma ciò non è peccaminoso: perché nel loro caso ridurre il divertimento è secondo ragione.
2. Geremia nel passo citato si riferisce a un particolare momento, che richiedeva piuttosto le lacrime. Egli infatti così prosegue: “Sedevo solitario; perché tu mi avevi riempito l’animo d’amarezza”. – Il testo di Tobia invece vuole escludere il divertimento esagerato, come si rileva dalle ultime parole: “Né ho preso parte con quelli che operano alla leggera”.
3. La virtù dell’austerità non esclude tutti i divertimenti, ma solo quelli esagerati e disordinati. Essa quindi rientra nell’affabilità, che il Filosofo denomina amicizia: oppure rientra nell’eutrapelia, o giovialità. Andronico però la denomina e la definisce come virtù affine alla temperanza, che ha il compito di moderare il piacere.


 
 
 

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